Lo yoga transmurario (yoga in carcere)

Qual’è il segreto [della] trasformazione? I sermoni? No.
Liberarsi dalle tensioni, il rilassamento e la pace mentale sono i segreti della trasformazione.
S
wami Satyananda, a proposito degli effetti della pratica di yoga nidra su un gruppo di persone recluse in un carcere indiano.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
art. 27 della costituzione italiana

nnn

Da un po’ più di cinque anni un corso di yoga esiste (e resiste) nella sezione femminile del carcere di Sollicciano. Nato per iniziativa di Jessica Martensson, con la quale collaboro dal 2014, offre alle donne e alle ragazze detenute la possibilità di avvicinarsi settimanalmente alla pratica. Sempre dal 2014, Jessica ha aperto un altro corso – probabilmente uno dei pochi esistenti in italia – destinato agli agenti di polizia penitenziaria. Noi crediamo che compito di un insegnante di yoga sia quello di mettere a disposizione di chi ne ha bisogno le tecniche che ha avuto la fortuna di poter conoscere, e se crediamo che questo sia necessario un po’ ovunque, lo pensiamo a maggior ragione di un luogo di sofferenza come il carcere, un luogo destrutturante dove entrano persone dalle vite spesso già destrutturate. infatti, contrariamente a quello che si vorrebbe pensare, salvo eccezioni e nonostante gli sforzi di tanti operatori attivi a vari livelli, la prigione non è un luogo in cui le persone recluse sono accompagnate in un reale percorso di riabilitazione, o di riflessione su loro stesse che le porti ad abbandonare comportamenti pericolosi o “devianti”. I motivi di questo insuccesso possono essere tanti – dal sovraffollamento alla mancanza di fondi o anche, purtroppo, a un clima culturale acriticamente repressivo… – ma quel che è certo è che la “cura” carceraria non ottiene gli effetti sperati. Basti pensare all’altissima percentuale di recidiva: una ricerca commissionata dal ministero della Giustizia parla del 68,45% dei detenuti tra quelli non ammessi alle cosiddette “misure alternative al carcere” (le principali sono gli arresti domiciliari, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, ma vengono concesse con parsimonia e per potervi accedere sono necessari requisiti che non tutti possiedono – in particolare le detenute e i detenuti stranieri –, come un alloggio, una situazione familiare e un lavoro ritenuti adeguati dalle autorità). Infine può valer la pena ricordare che italia più di quattro persone detenute su dieci sono in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti. tutto ciò porta alla conclusione che il carcere funziona sostanzialmente come un contenitore, dove tenere per un periodo più o meno lungo un certo numero di persone nella condizione di non reiterare il reato (e neanche tutti i reati). Un recinto, una gabbia, nonché, come spesso viene detto, una “discarica sociale”. Per questo, e nell’attesa di un profondo ripensamento della giustizia penale che potrebbe portare a un enorme ridimensionamento se non a un vero e proprio superamento dell’istituzione (penso a esperimenti di giustizia riparativa, come sono stati condotti con successo in molti paesi), mi piace considerare il nostro seva, il nostro servizio in carcere, come una pratica “transmuraria”.

Transmurario è una bella parola che mi ha regalato un amico, rimasto per troppi anni a combattere contro i muri della prigione. Perché, si sa, il carcere è fatto di muri. Non solo quelli che si vedono da fuori: anche all’interno il carcere è pieno di muri che, anche quando si incrociano ad angolo retto, fanno perdere il senso dell’orientamento, come a creare una specie di percorso labirintico. Poi ci sono quelli più sottili, ma non meno ingombranti: il muro dell’incomprensione (a partire da quella linguistica), quello dell’ottusità burocratica di cui tutti sono vittime, quello dell’arbitrario eletto a sistema, quello della risposta farmacologica a ogni tipo di disagio… e ovviamente, come “fuori”, ci sono quelli più robusti di tutti, i muri mentali, quelli creati da noi.

Siccome non sempre – anzi, quasi mai – questi muri si possono abbattere, scavalcarli il più delle volte è molto difficile, e non conviene aspettare qualcuno che apra il cancello, non rimane che tentare di passarci attraverso. Transmurare, per l’appunto. E lo yoga è profondamente transmurario, almeno per quanto riguarda i muri metaforici.

Come praticante di yoga ancor prima che come insegnante, questi sono i semi che cerco di spargere tra le nostre allieve, con lo scopo e la speranza di portare un po’ di sollievo nel loro quotidiano, e oltre se lo vorranno: – la pratica ci porta a riappropriarci della nostra creatività, della nostra determinazione, della nostra luce, diventandone consapevoli, e questo in tutte le circostanze, anche quelle più avverse;

  • con le asana possiamo acquisire forza, scioltezza, equilibrio, coordinamento, con effetti immediati: co-minciamo intanto a (re)imparare a camminare con la schiena ben eretta, la testa allineata, lo sguardo fermo ma senza alcuna aggressività, con morbidezza;
  • poiché ogni cambiamento fisico è accompagnato da un cambiamento mentale, sappiamo anche che la stabilità del corpo viaggia di pari passo con la stabilità psichica, e la flessibilità corporea consapevole con la capacità di adattamento, quanto mai necessaria in un ambiente di profondo disagio come il carcere; – imparando a (ri)conoscere il nostro respiro, a partire dalla consapevolezza del fatto che stiamo respirando e che il nostro respiro ci appartiene totalmente, possiamo iniziare a portare tranquillità nella nostra mente. anche qui gli sono effetti immediati: un respiro lento, profondo e regolare non è compatibile con uno stato di agitazione emotiva;
  • osservare, essere in contatto con il proprio soffio vitale aiuta a tenere a bada l’insonnia – e anche, benché possa sembrare paradossale, a difenderci dalle aggressioni olfattive che sono parte integrante dell’ambiente carcerario;
  • molte tecniche di rilassamento sono molto semplici e basta poca pratica per essere in grado di applicarle a sé stessi in qualsiasi momento.

Qualsiasi cosa sembri vincolarvi o limitarvi, dichiaratevene liberi da adesso stesso.

Non c’è niente nel mondo esterno, nessuna persona, condizione o circostanza, che vi possa portar via la libertà, che è vostra nello spirito.

Dichiarate voi stessi liberi da ansia e paura, liberi da qualunque credenza nella sorte o limitazione.

Swami Satyananda

Per approfondire
www.ristretti.it
www.associazioneantigone.it
www.liberarsi.org
www.altrodiritto.unifi.it

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini.  Milano, Chiarelettere, 2015.

foto di Vladislav Shapovalov

Articolo di Michèle Fantoli – ha iniziato a praticare yoga con il metodo di Osho; è passata poi al Satyananda Yoga. Nel 2006 ha incontrato il maestro di questa scuola, Sw. Niranjanananda Saraswati, dal quale ha ricevuto l’iniziazione. Ha conseguito il diploma di insegnante di yoga Satyananda presso il centro “Yoga Vidya Ashram” di Milano. Insegna a Pelago e ad Ellera. Dal 2014 ha iniziato a insegnare yoga nel carcere di Sollicciano di Firenze.

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